La mia lettera

Gentilissimo Direttore,

le invio questa lettera confidando nella sua etica professionale, onestà intellettuale e moralità che la guideranno nel decidere cosa farne.

Mi chiamo Aristide Stucchi e con mia sorella Alice siamo i figli di Giovanni Stucchi e Giovanna Donizetti, protagonisti, loro malgrado, di un intero capitolo del libro “Metastasi”.

Quando siamo stati avvertiti dalla stampa locale che il libro, uscito qualche giorno prima, riportava fatti riguardanti il rapimento di nostro padre e che, più specificatamente, accusava nostra madre di essere la mandante del cosiddetto “omicidio camuffato da sequestro”, la nostra prima reazione è stata quella di non voler ribattere a tali infamie, sicuri che si sarebbero commentate da sole.

Purtroppo, a distanza di un paio di settimane, dobbiamo constatare come, al di là della stampa locale che segnala gli innumerevoli errori riportati nelle ricostruzioni e definisce il libro come “un modo di fare giornalismo d’inchiesta pericoloso ed eticamente censurabile”, questo continui ad essere citato dai meno informati organi di informazione nazionali come eroico esempio di giornalismo.

Giornalisti e uomini di giustizia, da noi stimati per preparazione ed equilibrio, sembrano essere abbagliati dalla presunta credibilità dei due autori, arrivando a tesserne le lodi professionalmente e umanamente.

Evidentemente non immaginano che dietro un tale ‘best seller’ si possano nascondere noncuranza per i fatti reali e inesistenza di riscontri concreti; sembra impossibile, infatti, che ci si sia spinti fino ad accuse così gravi e infamanti senza una se pur minima indagine.

Non basterà, speriamo, l’ipocrisia con cui nelle avvertenze del libro si riporta: “…è altresì evidente che le dichiarazioni dei collaboratori e le accuse devono ancora passare al vaglio della magistratura. Pertanto le persone citate a vario titolo sono e vanno ritenute innocenti fino ad accertamento definitivo da parte dell’autorità giudiziaria…” per buttare nel tritacarne mediatico persone innocenti che sono per giunta state le vere vittime di fatti così gravi. È inammissibile che impunemente, nascondendosi dietro un simile éscamotage, si obblighino le famiglie colpite da questi terribili drammi a riaprire vecchie ferite che il tempo ha potuto soltanto cercare di lenire, e si costringano bambini tra i 3 e i 10 anni a misurarsi con concetti pesanti e duri come il rapimento, l’uccisione e l’infamia; parole  gettate sui loro più cari affetti, senza neppure verificare i fatti.

Come è possibile che vostri stimati colleghi abbiano scritto accuse così gravi senza aver neppure perso qualche minuto per verificarne la consistenza? E allora ecco fatto, il libro vive di una sua luce e i due autori diventano i nuovi paladini della giustizia!

Basta forse giustificare queste gravissime mancanze con il generico, supposto merito del libro di sensibilizzare l’opinione pubblica verso un fenomeno importante, per gettare fango e ferire persone completamente innocenti!?

Basta nascondersi dietro il diritto alla libertà di stampa per abusare di questo diritto!?

Le mie rimostranze non vanno a Giuseppe Di Bella, il quale del resto non ha conosciuto altro nella vita se non il delinquere, fatto salvo decidere, una volta arrestato, che fosse più conveniente pentirsi.

Lui stesso rivela già nell’introduzione al libro cosa lo guida “…tre, quattro anni fa dissi all’avvocato che volevo fare nuove dichiarazioni pur di ottenere qualcosa perché ero trattato troppo male…” . Forse che voglia fare da pentito quella carriera che non gli è riuscita durante la sua vita malavitosa? In fondo, se pentiti di ben altro comprovato calibro hanno ricevuto liquidazioni miliardarie per il loro reinserimento sociale (come riportato nel libro), perché lui si dovrebbe accontentare di 1.200 € al mese? Dopo tutto, è stato all’oratorio con il grande Boss!

A lui va la mia totale indifferenza. Provo solo un sentimento di sofferenza e di solidarietà cristiana nei confronti del figlio costretto in quelle condizioni, e spero che qualcuno lo possa aiutare.

La mia massima indignazione si concentra sui due autori del libro, che hanno consapevolmente deciso di raccontare, in quella forma e con quella diffusione, fatti del tutto inverosimili con assoluta noncuranza.

Non riesco a credere che possano essere stati così poco attenti da non sapere che il Boss Franco Coco Trovato fosse detenuto in carcere durante l’intera stagione dei sequestri riportati nel libro (arrestato nel marzo ‘74 e liberato solo nel ‘78), e che il cugino, che avrebbe fatto queste incredibili nuove dichiarazioni giocando a boccette con il Di Bella, non sarebbe altri che Francesco Coco, meglio noto come Franco Coco Minore, e conosciuto come un delinquentello di terz’ordine, con piccoli precedenti.

Costui, come sanno bene le forze dell’ordine, nonostante la parentela e la quasi omonimia con il Boss, non era certamente uomo di importanza nel clan, né era annoverato tra gli uomini di fiducia del Boss e, ancor meno, era uomo in grado di gestire operazioni complesse come i sequestri.

Ma forse, quando si vuole difendere così strenuamente la tesi secondo cui il Di Bella, ritenuto credibile in altre circostanze, debba esserlo conseguentemente anche per le dichiarazioni successive, è meglio presentarlo come un esponente di spicco dell’organizzazione e giocare sull’ambiguità creata dall’omonimia Coco, che induce un lettore poco attento a ritenere tali rivelazioni ancora più credibili perché provenienti direttamente dal grande Boss.

Per sostenere questa tesi probabilmente è stato più agevole per i giornalisti non andare per il sottile, omettendo di verificare informazioni clamorosamente errate come, ad esempio, l’affermazione del Di Bella che il corpo di nostro padre sarebbe “stato buttato nel lago di Lecco dalle parti di  Magreglio”, luogo in realtà posto in montagna (744 m s.l.m.) e piuttosto distante dal lago!; o ancora, accertare se esistessero (come in effetti esistono) prove che nostro padre fosse vivo diversi giorni dopo il sequestro e quindi non fosse “stato ucciso subito dopo il rapimento” come sostenuto nel libro.

Tutti i principi inerenti la verifica dell’attendibilità delle dichiarazioni dei pentiti sono stati in questo caso trascurati e accantonati. Per gli autori è stato meglio improvvisarsi esperti gestori di pentiti e scrivere il testo senza farsi troppe domande! È bastato mascherarsi dietro un’arrabattata ricostruzione romanzata degli avvenimenti che, seppur piena di imprecisioni e spesso di dati totalmente falsi, ha lo scopo di nascondere il fatto che nelle dichiarazioni del Di Bella mancano completamente i veri colpevoli dei sequestri in questione (quelli sì, ritenuti tali e condannati in via definitiva dalle autorità competenti), e continuare a giocare sull’ambiguità creata dall’omonimia tra il Boss e un suo cugino, per spingere il lettore a credere che tali rivelazioni arrivino dai vertici dell’organizzazione e non da un furfantello qualunque.

Del resto, per vendere un libro a livello nazionale e, perché no, internazionale, è molto meglio far credere che si sia di fronte a uno dei pochissimi esponenti di spicco delle ‘ndrine che ha avuto il coraggio di pentirsi!

Se qualcuno, leggendo tra le righe, si rendesse conto che in realtà il Di Bella era un uomo ai margini dell’organizzazione, non affiliato e non certo annoverabile tra gli uomini di fiducia del Boss, e che afferma di aver ricevuto le confidenze alla base delle sue dichiarazioni da un altro esponente di second’ordine dell’organizzazione, dove andrebbe a finire il grande scoop?! E allora via al ballo delle ovvietà e degli equivoci in cui a volte il Boss viene chiamato “Coco Trovato”, a volte “Franco”. Quale lettore si prenderà la briga di districarsi in questo continuo gioco dell’ambiguità creata dall’omonimia?

Meglio riportare e romanzare qualche dichiarazione di un altro pentito, molto più quotato, che si riferisce solo ad un caso eclatante (vicenda Versace), ed anche se il racconto del Di Bella sfiora in questo punto il limite del grottesco, far invece intendere che nel libro vi siano molti fatti circostanziati da dichiarazioni incrociate.

Perché porsi domande sul motivo di una tardiva rivelazione del pentito a due giornalisti evitando la magistratura?

Meglio spostare l’attenzione sul fattore “umano”, sposare la tesi di un percorso di “maturazione personale”, che ha portato il Di Bella a “pentirsi” e incolpare la burocrazia giudiziaria di avergli ucciso la moglie non permettendogli di “trasferirla in Svizzera, in una clinica specialistica, per tentare di salvarla”.

Perché perdere inutile tempo per verificare la minima veridicità dei fatti raccontati?

Il momento è il migliore, qualsiasi sia il fine che si voglia perseguire, specialmente se si sta valutando cinicamente il lancio di un libro da cui si voglia ricavare il massimo profitto economico.

Ed eccoci pronti!

La realtà però è molto più semplice e sconcertante: un pentito è in cerca di qualcosa, due autori sono alla ricerca di qualcos’altro e tanto fango viene buttato su persone che non solo sono del tutto innocenti ma ancor più paradossalmente sono state le vere vittime di questi delitti.

E noi lasciati di nuovo soli!

Ma questa volta non lo posso accettare, lo devo ai miei genitori e in particolar modo a mia mamma. Nonostante non provi un grande piacere nel farlo, leggo e rileggo il libro e seguo le trasmissioni e la stampa che ne parla e tutto diventa così chiaro e lampante che non posso che prendere carta e penna e mettermi a scrivere:

Solo la mia famiglia sa veramente il dolore provato da tutti noi e da mia mamma in quei terribili momenti e quanto quello che sta succedendo ora sia per noi tutti assurdo e sconvolgente.

Fortunatamente noi adulti siamo forti abbastanza, sappiamo come le cose sono andate veramente e siamo in grado di valutare la ‘moralità’, e non mi riferisco solo a quella di sedicenti collaboratori di giustizia, ma anche a quella di persone che, in nome di un qualche profitto, usano titoli ad effetto e buttano fango sulla memoria di mia mamma senza neppure preoccuparsi di verificare la veridicità di affermazioni così gravi e infamanti.

Se da un lato mi dispiace che mia mamma non sia più tra noi per difendersi con le proprie parole (cosa che fra l’altro rende, se possibile, ancor più intollerabile quanto scritto), sono in qualche modo sollevato dal fatto che non sia costretta a subire questa ulteriore sofferenza.

Mia mamma è stata una persona forte che la vita ha voluto mettere più volte alla prova. Lei, con la sua bontà, umanità e caparbietà, ha avuto la forza di passare quei momenti devastanti ed è stata la mamma e la nonna migliore che chiunque si possa augurare.

E proprio ai suoi nipoti so che andrebbe subito il suo pensiero, così come sta andando in questi momenti quello della mia intera famiglia.

Io, mia sorella, le nostre famiglie, i nostri zii e i nostri cugini tutti insieme siamo a chiederci come si fa a spiegare a 5 bambini tra i 3 e i 10 anni che qualcuno, per una qualche voglia di protagonismo, per difendersi, o per vendere qualche copia in più sta inventandosi cose assurde e totalmente false e sta dicendo che la loro nonna ha fatto uccidere il loro nonno?!

Mio padre, in una lettera fattaci pervenire durante la sua prigionia, ha scritto: “qualunque cosa succeda non voglio che i miei figli crescano con il rancore nel cuore” e mia mamma ci ha sempre cresciuti con questo in mente e dicendoci di “lottare sempre per i più deboli e fare agli altri solo quello che vorresti che gli altri facessero a te”.

Semplici insegnamenti che hanno guidato tutta la mia vita e che io spero di essere in grado di trasmettere ai miei figli.

Non mi resta che augurare a questi nuovi ‘paladini della giustizia’, che si permettono di gettare fango su mia mamma, che possano un giorno fare propri questi insegnamenti o che, per lo meno, lo facciano per i loro figli.

Aristide Stucchi

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